Non solo CO2. Sul banco degli imputati dell’inquinamento atmosferico e del cambiamento climatico finiscono ora anche le particelle di fuliggine e i cristalli di ghiaccio prodotti dagli scarichi del Jet A-1, il carburante convenzionale dell’aviazione commerciale. Lo ha messo ben in chiaro il primo studio in volo al mondo sull’utilizzo di carburante per l’aviazione sostenibile, denominato “Emission and Climate Impact of alternative Fuels 3”. Reso noto lo scorso giugno, il programma di test è frutto della collaborazione di Airbus, Rolls-Royce e Centro aerospaziale tedesco (Dlr), unitamente a Neste, produttore di carburanti sostenibili per l’aviazione (meglio noti come Saf).
I risultati, tuttavia, rischiano ora di generare un terremoto nell’intero settore dei trasporti aerei, avendo la Iata (International Air Transport Association) sempre sostenuto di esercitare un impatto sul cambiamento climatico di appena il 2-2,5 per cento. Tale, in effetti, sarebbe la quantità attestata se i modelli di rilevamento si basassero solo sul contributo della CO2, ma dopo la pubblicazione del report della European Aviation Safety Authority, nel novembre 2020, è emerso che l’impatto aereo è stato per anni sottostimato e sia da considerare almeno doppio, tenendo conto degli altri elementi di scarico. Dai modelli previsionali alla pratica in volo il passo è stato breve, finendo per riaprire un confronto che sta portando in luce persino il ruolo chiave di attori non civili, in primis la Nato.
Con i SAF meno scie in cielo
“Sapevamo già che i carburanti sostenibili per l’aviazione fossero in grado di ridurre l’impronta di carbonio – ha osservato Mark Bentall, capo del programma di ricerca e tecnologia Airbus – ma, grazie allo studio Eclif3, abbiamo ora compreso che il Saf riduce pure le emissioni di fuliggine e la formazione di particolato di ghiaccio che vediamo come scie di condensazione”. Parole rafforzate dalla presa di posizione del collega Markus Fischer, membro del consiglio di amministrazione della divisione Dlr per l’aeronautica: “i risultati degli esperimenti di volo Eclif3 mostrano come l’uso del 100 per cento Saf possa aiutarci a ridurre significativamente l’effetto delle scie di riscaldamento sul clima, oltre che l’impronta di carbonio in volo”.
Il cielo ha espresso il suo verdetto: grazie all’impiego di carburante 100 per cento Saf, l’impatto delle cosiddette “contrails” è diminuito del 26 per cento rispetto al tradizionale Jet A-1. Durante la campagna Eclif3, l’aereo da ricerca DLR Falcon 20 ha eseguito misurazioni in situ al seguito di un aereo sorgente: un Airbus A350-941 alimentato da motori Rolls-Royce Trent XWB-84 e in viaggio ad altitudini di crociera. Condotti a terra e in volo nel 2021, i test hanno coinvolto anche membri del Consiglio Nazionale delle Ricerche del Canada e dell’Università di Manchester.
“Sono stati misurati indici di emissione di ghiaccio apparente pari al 100 per cento di Hefa-Spk (componenti di estere idroprocessato e acidi grassi, ma anche cherosene paraffinico sintetico) – riporta il testo pubblicato sulla rivista Copernicus Atmospheric Chemistry & Physics – venendo quindi confrontati con le scie di carburante Jet A-1 in condizioni simili di motore e ambiente. È stata così misurata una riduzione del 56 per cento di particelle di ghiaccio per massa di carburante bruciato, tenendo di riferimento un Hefa-Spk al 100 per cento rispetto al Jet A-1 in condizioni di crociera. La riduzione del 35 per cento del numero di particelle di fuliggine suggerisce inoltre una ridotta attivazione del ghiaccio da parte del carburante Hefa a basso contenuto di zolfo. Le simulazioni del modello climatico globale su una flotta del 2018 stimano, in modo conservativo, una diminuzione del 26 per cento della forzante radiativa delle scie (l’effetto schermo prodotto in atmosfera, ndr) e diminuzioni più forti per riduzioni di particelle più grandi. I risultati indicano dunque che i carburanti con un contenuto di idrogeno più elevato e i motori puliti con basse emissioni di particelle possono portare a una riduzione del forzante climatico dovuta alle scie di condensazione”.
Misurazioni aeree incerte
Per la Iata, però, lo studio pare più che altro un assist alla Commissione Europea per richiedere dal 2025 misurazioni obbligatorie sugli scarichi individuali dei voli, oltre che controlli extra-territoriali, basandosi su modelli previsionali non adeguati ma certamente utili per imporre salate compensazioni. Nulla da obiettare sul fatto che le emissioni derivanti dalla combustione siano costituite principalmente da anidride carbonica, vapore acqueo, ossidi di azoto, ossidi di zolfo e monossido di carbonio, oltre che fuliggine, incombusti idrocarburi, aerosol e tracce di composti idrossilici. Né si nega che la maggior parte degli scarichi siano rilasciati in atmosfera ad altitudini di crociera di 8-13 km sopra il livello medio del mare. “Quando il vapore acqueo è espulso dai motori a reazione in quota e in determinate condizioni di elevata umidità – riconosce la nota “Non-CO2 emissions FAQ” della Iata – può condensarsi nelle particelle di carbonio di scarico, così come sotto forma di aerosol nell’atmosfera. Se l’aria è sufficientemente umida, il vapore acqueo può condensarsi ulteriormente in cristalli e formare una nuvola. Tali nubi, generate dalla condensazione del vapore acqueo di scarico degli aerei, sono chiamate scie di condensazione o contrails”.
L’associazione mette però i puntini sulle i. “I principali contributi al cambiamento climatico del trasporto aereo, derivanti dalle emissioni diverse dalla CO2, provengono dalla formazione di scie persistenti e in particolare delle risultanti nubi indotte dall’aviazione, nonché da reazioni chimiche atmosferiche indotte dalle emissioni di NOx”. La Iata, dunque, ammette che negli anni sono stati effettuati studi attestanti l’effetto climalterante “a livello aggregato”, ma obietta che manchino ancora misurazioni precise a livello di singola compagnia o volo. Per gli ossidi di azoto, la quantità di NOx emessa da un aereo dipende fra l’altro dalla progettazione del motore, dalla tecnologia utilizzata e dalle condizioni operative (minimo, decollo, discesa, ecc.), nonché dalle condizioni dell’atmosfera (temperatura, pressione e umidità) in base alle quali si rapporta il motore. Anche questa variabilità andrebbe perciò tenuta in considerazione quando si parla di formazione di scie. “Sebbene queste non si formino sempre, il loro effetto dipende dalla loro persistenza, dal luogo e dall’ora del giorno in cui si formano, dalle condizioni meteorologiche, dall’effetto combinato di scie multiple e, soprattutto, nel caso producano un effetto di raffreddamento o di riscaldamento. Calcolare il loro effetto climatico netto in base al volo è perciò estremamente complesso”.
Le condizioni della Iata
Pochi giorni dopo la pubblicazione dello studio, l’associazione ha preso posizione e suggerito che le future misurazioni degli scarichi siano fornite a livello volontario. Queste le parole del direttore generale Willie Walsh. “Non contestiamo l’evidenza scientifica che le emissioni diverse dalla CO2 e, in particolare, le scie di condensazione, abbiano un impatto sul cambiamento climatico. Ma non esiste consenso scientifico sulla capacità di prevedere le scie di condensazione persistenti. Per raggiungere questo obiettivo abbiamo bisogno di più dati sull’umidità. E solo allora i governi dovrebbero cercare di sviluppare politiche sulle scie di condensazione”. In sostanza, se la politica vuole tenersi informata mediante dati (scelta su cui la Iata è d’accordo), dovrebbe esserci prima un accordo scientifico sul fatto che si stiano misurando elementi corretti e nel modo giusto. Nel caso delle scie, obietta sempre la Iata, alcune potrebbero riscaldarsi e altre potrebbero raffreddarsi. Quattro, in definitiva, le criticità sollevate: poiché la scienza non è oggi in grado di portare a un accurato processo di misurazione, reporting e verifica, il contributo richiesto può avvenire solo su base volontaria e in funzione della capacità delle compagnie aeree; l’ambito d’applicazione delle misure dev’essere circoscritto alla sola Unione Europea, onde mantenere coerenza con i parametri Ets dell’aviazione; serve una roadmap che offra opzioni per la mitigazione sia in base alla CO2 che alle altre sostanze di scarico; occorrerebbero fondi per installare sensori di rilevamento dell’umidità alla base degli scarichi, indispensabili per avere poi riscontri precisi sugli effetti nell’atmosfera.
Il carburante voluto dalla Nato
Dietro la ritrosia della Iata e la volontà di adottare carburanti in grado di non lasciare tracce persistenti potrebbero esserci però ragioni ancor meno chiare. Sino al 1999, ad esempio, è stato il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico a denunciare apertamente gli effetti climalteranti dell’aviazione, salvo poi chiudersi in un prolungato silenzio rotto solo da interventi di singoli ricercatori e scienziati. Una delle denunce più dirette è stata forse quella di Chuck Long, membro dell’Earth System Research Laboratory del Noaa, l’agenzie federale americana che studia le condizioni atmosferiche. Al convegno dell’American Geophysical Union del 2015, il ricercatore statunitense sostenne che le scie emesse dagli aerei stessero provocando uno sbiancamento dei cieli a causa del quale l’energia solare perveniva sulla terra più fioca. Gli investimenti di Bill Gates nella schermatura dell’atmosfera per favorire l’abbassamento della temperatura terrestre non hanno fatto altro che accrescere le preoccupazioni sul tema.
Un dato chiave, però, spinge a tornare indietro di almeno un quarto di secolo per capire che cosa stia succedendo in cielo: l’introduzione del cosiddetto “Single Fuel Nato” per tutti gli aerei civili e militari appartenenti ai Paesi dell’Alleanza atlantica, a partire dalla fine degli anni ’90 del secolo scorso e dal concomitante boom nei trasporti delle compagnie aeree low-cost. L’operazione risale ufficialmente al 1986, quando le nazioni aderenti alla Nato concordarono di passare dall’uso del carburante JP-4 a nafta al JP-8 a cherosene: una miscela decisamente più “sporca”, ma anche più funzionale per la distribuzione perché standardizzata grazie all’impiego del Nato-Pol (acronimo per Petroleum Oil Lubricant), il sistema di oledotti al servizio degli aeroporti militari e civili sia nordamericani che europei. La transizione al nuovo carburante si compì fra il 1988 e il 1996, mentre l’anno successivo, in occasione del 22° seminario internazionale sulle emergenze planetarie organizzato a Erice in Sicilia, venne lanciata la proposta di irrorare il cielo per erigere uno scudo protettivo intorno al pianeta. Curato dal trio di scienziati Teller-Wood-Hyde, lo studio dava forza all’idea di utilizzare zolfo, alluminio e bario per raggiungere lo scopo, così come in seguito sarebbero state suggerite anche polvere di diamanti o carbonato di calcio. Elementi che si ritrovano proprio nella miscela del JP8 usato sui mezzi Nato e che, forse non casualmente, vennero riscontrati abbondantemente in atmosfera negli studi del rapporto Ipcc del 1999.
Analizzando la composizione del Jet Propeller 8 (in codice Nato F-34) col Jet A-1 (in codice Nato F-35), contestato oggi dai produttori di Saf, risulta che si tratta di carburanti sostanzialmente uguali, ma sotto nomi diversi. Alla sconcertante conclusione, suffragata pure da una recente tesi di laurea dell’Università di Padova, è pervenuta la fondatrice della piattaforma “No Geoingegneria” Maria Heibel. Indubbiamente la rivoluzione dei Saf, come sostiene la Iata, richiede maggiori approfondimenti, ma anche e soprattutto piena trasparenza sull’intero percorso di evoluzione dei carburanti. Potrebbe anche darsi che il responsabile principale del cambiamento climatico non sia il tanto vituperato mercato dei trasporti, bensì il settore della sperimentazione militare.