Raffaele Ghedini: Orwell non avrebbe saputo immaginare di meglio

22 Novembre 2024
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Il Prof. Raffaele Ghedini, economista, in una disamina dell’obiettivo Net Zero al 2050

Una normativa che a raccoglierne i principi ispiratori come fossero fiori in un campo, vien da plaudire per il suo dichiarato obiettivo di sospingere le aziende verso quel 2050 in cui la natura sarà ancora più colorata e profumata. Una cura speciale, quella messa in campo con la CSRD dall’Unione europea con il dichiarato intento di occuparsi del benessere e del futuro del pianeta e in quest’ottica, giustamente, domandare a chi sfrutta le risorse di renderne conto e di misurare il proprio impatto sull’ambiente, sulla società e sulla propria governance.

In realtà, mentre passeggiamo sull’erba, iniziamo a vedere intorno a noi sguardi preoccupati e confusi e così, senza pensarci due volte, inforchiamo la nostra bicicletta (come si noterà questo è un articolo dalle inequivocabili connotazioni green, caso mai qualcuno arrivasse un giorno a presentarci una lista di domande, come tra poco spiegheremo) e raggiungiamo Raffaele Ghedini, economista da sempre attentissimo ai fenomeni sociali e politici e al loro impatto sull’efficienza economica, con una grande attitudine a vedere lontano, che ormai scomodiamo ogniqualvolta sentiamo l’esigenza di approfondire questioni che soffiano sul mondo della logistica e del trasporto, dove magari noi li sentiamo maggiormente, ma che è chiaro che spirano da lontano e si infilano come vento in tutti gli interstizi.

Gli spieghiamo subito come molte aziende con le quali veniamo quotidianamente in contatto siano preoccupate rispetto ai futuri obblighi di legge in tema ESG e lui, fattosi serio in un istante, ci gela: “Non mi meraviglia affatto. Ciò che mi stupisce è che la questione non stia preoccupando con altrettanta forza i responsabili politici dei vari Paesi europei, perché si tratta innanzitutto di una normativa “esemplare” dell’incapacità dell’UE di farsi guida strategica per il continente, e inoltre perché senza adeguate regolazioni il suo impatto potenziale potrebbe essere devastante sulle strutture industriali europee e sulla competitività delle aziende. Se continuiamo così, in Europa, l’unica transizione che gestiremo sarà quella all’eutanasia”. 

(Ci schiariamo la voce, e facciamo finta di non aver colto la portata delle sue parole) 

Professor Ghedini, prima di tutto contestualizziamo: come si inserisce la CSRD nelle politiche europee, e qual è la portata, quanto meno in termini programmatici, del cambiamento che ha inteso scrivere nero su bianco? 

La CSRD, Corporate Sustainability Reporting Directive, è la più recente manifestazione attuativa del percorso noto come Green Deal europeo, un insieme di iniziative strategiche progettate per orientare l’Unione Europea verso la cosiddetta “transizione verde”, ovvero un percorso che ha l’obiettivo di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050. Seppure non significhi che l’Europa non debba più produrre emissioni, ma che tutte quelle che ancora non saremo riusciti ad eliminare verranno compensate o assorbite, quello fissato è un target ovviamente molto ambizioso.

E’ una Direttiva Europea del 2022 appena attuata in Italia dal D. Lgs. 125 del 6/9/2024. Presenta sicuramente un passaggio concettualmente positivo rispetto allo step precedente, la NFRD (Non Financial Reporting Directive, attuata in Italia con D. Lgs. 254/2016) : la CSRD indica oggi come rilevanti non le vaghe “informazioni di carattere non finanziario” della direttiva precedente, ma una serie ben articolata di dati legati al concetto di “sostenibilità aziendale”. Assumono quindi finalmente valore e centralità, nella valutazione delle aziende, una serie di questioni relative all’ambiente, alla società e alle governance. Fin qui dunque tutto bene, i problemi arrivano, come purtroppo quasi sempre nella gestione dell’U.E., quando si deve passare dalle parole che esprimono bellissimi concetti agli strumenti che li dovrebbero rendere operativi.

Il processo decisionale ed applicativo europeo è sempre complicato e lungo. Anche in questo caso solo il 14 dicembre 2023 è stato raggiunto faticosamente un accordo (tra l’altro fino all’ultimo osteggiato da Italia e Germania, trovatesi per una volta dalla stessa parte) sul testo finale di un documento chiave per l’applicabilità concreta della CSDR, la Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDDD). Questa prevede l’introduzione di una serie di nuovi obblighi di condotta da osservare, nelle attività di due diligence, per verificare gli impatti negativi sull’ambiente e sui diritti umani delle operazioni di un’azienda e anche, attenzione, delle attività delle sue controllate e anche dei suoi partner commerciali, quindi lungo tutta la sua catena di valore.

Parliamo di un numero di imprese coinvolte estremamente elevato.

Esattamente, questo è l’elemento chiave che porta una normativa, che ufficialmente si stima dovrebbe coinvolgere circa 49.000 aziende in tutta Europa, a coinvolgere un numero spropositato di tutte le aziende che costituiscono la rete di approvvigionamento delle prime. Si stima che solo in Italia siano più di 100mila.

E va bene, si tratta di un numero elevato di società che godranno o meno di vantaggi competitivi in base alla loro vicinanza ai parametri stabiliti.  

Non la faccia così semplice (il professore, per definizione, bacchetta): lei giustamente pensa a dei “parametri stabiliti”, che ovviamente nella sua testa dovrebbero rappresentare indicatori certi, significativi e chiari. Ma purtroppo non è così: la Commissione Europea ha incaricato un Gruppo Consultivo Europeo sull’Informativa Finanziaria (indicato come EFRAG) di elaborare i cosiddetti nuovi standard di sostenibilità, indicati come ESRS (European Sustainability Reporting Standards).

Ed ecco un primo colpo di bacchetta magica: la CSRD prevede che gli Stati membri recepiscano la direttiva entro 18 mesi; il regolamento riguardante gli ESRS è direttamente applicabile in tutti gli Stati membri dell’UE senza necessità di alcuna azione legislativa nazionale.  Ciò per cominciare ha creato un bias importante e generale tra il momento in cui le aziende iniziano a dover ragionare ed operare secondo i nuovi standard (essendone quindi sostanzialmente soggette) e il momento in cui il loro Paese recepisce la direttiva. Inoltre, sul piano nazionale le singole attuazioni producono ovviamente normative simili ma diverse, con chiari svantaggi di competitività per le aziende che si trovano ad operare nei contesti più rigorosi.

Ma c’è un secondo colpo di bacchetta magica:  gli ESRS definiscono un quadro di riferimento, certo articolato e non semplice, ma comunque definito, per le informazioni che un’impresa deve divulgare sui suoi impatti materiali e su rischi e opportunità legati ai tre temi della sostenibilità ambientale, sociale e di governance; ma la CSRD richiede alle aziende analisi nella cosiddetta doppia materialità, ovvero in grado di riportare non solo come la loro gestione dei temi ESG impatti sull’ambiente e sui loro stakeholders (la cosiddetta analisi inside-out), ma anche come, viceversa, i fattori esterni di sostenibilità, come ad esempio il cambiamento climatico, possano influenzare il valore economico dell’impresa (detta analisi outside-in).

Non sembra esattamente semplice da mettere in atto, eppure le aziende saranno sottoposte ad un rigoroso controllo. 

Rigoroso? Mah, vediamo…  Incaricati del controllo saranno i revisori, soggetti che avranno ricevuto una formazione specifica (ma permangono ampie aree di incertezza relative al come e da chi), dagli (o sotto il controllo degli?) Independent Assurance Providers designati da ciascun Stato membro conformemente alle rispettive normative (e anche qui, per inciso, sono indicati solo quattro ambiti su cui concentrare la revisione poi… “ognun per sé”, come nella migliore tradizione europea, con i problemi di sperequazione competitiva già sopra ricordati). Ma a parte questo, per i primi tre anni l’incarico di revisione sarà finalizzato ad acquisire un livello che viene definito di “sicurezza limitata”, con il revisore che formula le proprie conclusioni sulla base di elenchi di distinguo e comunque solo in forma negativa. Ma è evidente che dire che un’azienda formalmente non sbaglia è ben diverso dall’affermare che è nel giusto. Dopo i primi tre anni, la nebbia anziché diradarsi si infittisce: la Commissione europea è tenuta a considerare l’introduzione di incarichi di revisione finalizzati ad acquisire un livello definito di “ragionevole sicurezza” sulla conformità della rendicontazione … un qualcosa che in politica significa che chi vivrà vedrà.

Dunque, riassumendo: valutazione dell’intera supply chain, doppia materialità e un sistema di controllo che solo a leggerlo sulla carta sembra già privilegiare chi potrà permettersi di pagare i consulenti più bravi… 

Esattamente, sostituiamo al suo “più bravi” il più concreto “più efficaci” e abbiamo già compreso che come sempre saranno le piccole e medie imprese a dover sopportare le conseguenze più negative.

Ma non è tutto! Pensi che è previsto l’obbligo, per le aziende soggette, di redigere la relazione sulla sostenibilità in un formato elettronico di comunicazione unico (ESEF), con lo scopo dichiarato di facilitare il confronto dei dati, ma che, attenzione, verrà operato da un punto di accesso unico europeo in via di realizzazione (ESAP). A chiunque abbia cara la libertà dei cittadini e delle loro organizzazioni nell’ambito della società una cosa del genere fa venire i brividi: è un obbligo potenzialmente anti-libertario che lascia prefigurare una UE “grande sorella” che ormai appare esattamente il contrario degli ideali europei da cui l’UE stessa è nata.

Quali sono secondo lei le strade che potranno percorrere le aziende per uscire da questo pasticcio, e soprattutto quale sarà l’impatto di questa normativa farraginosa sulla competitività del sistema produttivo europeo?

Le grandi aziende direttamente coinvolte dalla normativa non potranno far altro, e infatti lo stanno già facendo, che rivolgersi alle solite società ben introdotte che magicamente si sono già precipitate a creare team di consulenza o piattaforme web per correre incontro ai big che non sanno che pesci pigliare. E sono proprio le piattaforme che mi preoccupano, con la loro promessa di risolvere il problema con un elenco di domande alle quali però non solo deve rispondere il committente, per cui sono pensate, ma l’intera catena. Lei mi diceva di sentire molta preoccupazione nel settore logistico e dei trasporti: si immagina il padroncino ad impazzire su un file da centinaia di quesiti? Capisce che le piccole realtà non hanno gli strumenti!?

Le aziende dunque, grandi, medie o piccole che siano dovranno sostenere un aumento dei costi esorbitante, e senza che sia ben chiaro neanche se l’obbligo di rendicontazione migliorerà il loro impatto, e quindi si tradurrà in un effettivo vantaggio per la collettività.

Non lo migliorerà, se non marginalmente nel lungo periodo e ad un prezzo molto alto. La grande azienda sta già facendo quel percorso e risolverà la questione (come sempre, come fu per l’epopea delle certificazioni di qualità) in modo burocratico, incaricando, come detto, uno o più consulenti esterni di mettere a terra tutto il lavoro. Sarà una spesa, certo, ma potrà sostenerla. Discorso diverso per le PMI. Esiste una piccola percentuale di PMI rappresentata da aziende molto brillanti: queste hanno già iniziato ad occuparsi di sostenibilità ambientale in modo serio e concreto e non da due anni, perché lo ha detto l’U.E., ma da sempre, da quando sono nate. Redigendo la rendicontazione non cambierà il loro impatto, che sono già impegnate a minimizzare, ma avranno semplicemente un costo in più. Anch’esse però, fortunatamente, se lo possono permettere. Il vero problema sarà per quella porzione di piccole e medie imprese che non sanno neanche di cosa si stia parlando. Queste sono realtà che avranno un aumento dei costi spaventoso, perché ai costi per la consulenza che dovranno richiedere si aggiungeranno negli anni i costi per cercare di avvicinarsi ai target necessari, sia che lo facciano per via di riduzione che per via di compensazione.

C’è una sola domanda che a questo punto le posso fare, ed è: perché?

Siamo di fronte ad un complesso normativo messo in atto in maniera sconnessa e incoerente. Scomodo persino per le autorità politiche dei singoli Paesi, che andranno incontro a contesti in cui il loro tessuto produttivo competerà contro aziende di altri paesi europei soggette a normative diverse. Scomodo per gli attori economici, che dovranno sostenere aumenti di costo importanti. Fosse almeno un sacrificio volto a contribuire alla neutralità climatica di un domani, lontano ma certo, avrebbe senso. Ma quale credibilità può avere, è bene che si inizi a dirlo, un obiettivo tanto ambizioso fissato a 30 anni? La Storia ci insegna che procedere per slogan non ha mai aiutato a centrare i risultati. Chi si occupa di strategia sa che quando si intende fissare un obiettivo che non si ha la minima idea se e come raggiungibile, lo si fissa a 30/40 anni, mentre se si è convinti di procedere, e di farlo seriamente, allora si fissa il traguardo a cinque anni, e si cammina tenendone costantemente monitorata la distanza.

E allora perché? Siamo forse in una situazione che la teoria dei giochi chiamerebbe di “lose-lose”, in cui tutti perdono? Non proprio. Il punto è che esiste ormai un apparato, che negli anni è diventato gigantesco, che vive di complessità sempre più elevate con l’unico fine, ormai inevitabile sotto il profilo organizzativo, di produrre complessità sempre più elevate. Questo apparato da linfa ad una quantità ormai abnorme di organismi, enti, comitati, commissioni, all’interno dei quali lavora una pletora enorme di persone.

Guardi, io sono profondamente europeista, tanto da credere che, se esiste una via d’uscita e di salvezza per il nostro continente, questa possa essere fornita solo da un’entità politica (sottolinea bene la parola “politica” con la voce) davvero europea, non espressione del continuo compromesso tra i governi nazionali. Ad oggi, sotto diversi aspetti, le istituzioni europee sono divenute l’esatto contrario di questo ideale: nel loro insieme rappresentano ormai un’istituzione molto articolata e sconnessa che produce solo burocrazia. E la burocrazia, come ancora la Storia ci insegna, alla fine produce solo maggiori costi e minore efficienza. Oggi noi europei non siamo più competitivi, né nei confronti degli USA né di nessuna delle altre grandi economie mondiali emergenti. Non possiamo permetterci ulteriori perdite di competitività: dobbiamo trasformare l’inadeguato apparato burocratico che abbiamo in una snella, competente ed efficace Entità Politica Europea. E’ una sfida enorme, ma in gioco c’è non solo la competitività delle nostre economie, ma anche la nostra sopravvivenza, culturale e alla lunga forse non solo tale.

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