Comincia l’era dell’industria 5.0. O forse no

Si scrive Industria 5.0, si legge integrazione uomo-macchina. A seguito dell’approvazione del decreto legge Pnrr, avvenuta lo scorso 26 febbraio, il piano Transizione 5.0 da esso introdotto è divenuto a tutti gli effetti realtà, per quanto necessiti ancora di due decreti attuativi per essere pienamente operativo
15 Maggio 2024
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Industria 5.0

Fulcro del Pnrr è lo sviluppo del piano Industria 5.0, grazie alla disponibilità di 13 miliardi di euro di investimenti – nel biennio 2024/2025 – destinati a imprese italiane di qualsiasi dimensione e senza alcuna valutazione preliminare, affinché “abbattano i propri consumi” attraverso digitalizzazione e best practices sostenibili.

“Il risparmio energetico deve riguardare la struttura produttiva o i processi interessati dall’investimento – ha chiarito Andrea Paparo, direttore di Confapi Industria Piacenza in occasione di un webinar d’approfondimento – e va calcolato rispetto ai consumi energetici registrati nell’esercizio precedente a quello di avvio di effettuazione degli investimenti, al netto delle variazioni dei volumi produttivi, così come delle condizioni esterne che influiscono sul consumo energetico.

Il credito d’imposta è calcolato invece per ciascuna annualità, applicando alla somma degli investimenti eleggibili, nei limiti di 50 milioni di euro, le aliquote previste per scaglioni di investimento e a seconda del livello di risparmio energetico conseguito dal progetto di innovazione. L’agevolazione può giungere sino a un massimo del 45 per cento dei costi ammissibili e, in caso di impianti fotovoltaici particolarmente efficienti, addirittura sino al 63 per cento.

Industria 5.0

La fruizione in compensazione può infine avvenire in un’unica soluzione entro il 31 dicembre 2025; a decorrere dal 2026, il beneficio non fruito potrà essere compensato in cinque quote annuali”.

Industria 5.0: tre ambiti di sviluppo

Tre, dunque, le opzioni di investimento agevolato previste: efficienza energetica (con acquisto di nuovi beni strumentali), adozione di tecnologie all’avanguardia (fra cui robotica avanzata, IA, IoT, stampa 3D, cloud computing…), promozione della sostenibilità (con utilizzo di energie rinnovabili e pratiche produttive eco-friendly).

La percentuale del credito d’imposta riconosciuto varierà in base ai miglioramenti ottenuti in termini di efficienza energetica a livello aziendale (almeno del 3 per cento) o a livello di processo produttivo interessato (almeno del 5 per cento). Per compensare le imposte a debito o produrre uno sconto sul pagamento di beni strumentali al fornitore, inoltre, è previsto il rinnovo del credito d’imposta con aliquote variabili secondo la tabella definita nel decreto 19 del 2 marzo 2024.

Industria 5.0

Fra le novità inserite, oltre all’agevolazione degli investimenti in nuovi beni materiali e immateriali “interconnessi al sistema aziendale di gestione della produzione o alla rete di fornitura”, spiccano come
beni ammissibili pure i software, i sistemi, le piattaforme o le applicazioni “per il monitoraggio continuo” attraverso la raccolta di dati di sensoristica IoT di campo (Energy Dashboard), così come i software relativi alla gestione di impresa (inclusi gestionali ed Erp).

Cruciale l’aspetto delle certificazioni, necessarie “ex ante” ed “ex post” per accedere agli incentivi, garantite da ciascuno di quei referenti abilitati a produrre la certificazione tecnico-economica prevista dal Fondo per il sostegno alla Transizione Industriale.

Un nuovo paradigma

“L’Industria 5.0 è destinata a cambiare il mercato” – aveva anticipato lo scorso novembre il presidente di Confindustria Toscana Sud Fabrizio Bernini, in occasione dell’assemblea generale dell’associazione svoltasi a Siena. “D’ora in poi non dovremo più essere bravi solo a fare, a produrre, ma piuttosto a capire cosa vogliono i consumatori e perché lo vogliono. L’imprenditore del futuro lavorerà meno di prima ma penserà di più: deve conoscere, per questo il capitale umano è fondamentale ed è alla base dell’azienda”.

Parole che andrebbero prese alla lettera. La revisione del Pnrr italiano mediante la nuova missione “Repower Ue”, infatti, premia gli investimenti delle aziende in sostenibilità, sorvolando sul fatto che la tecnologia su cui si fonda la produzione di energia rinnovabile sia anch’essa altamente inquinante: uso di intelligenza artificiale, fusione del vetro e cristallizzazione del silicio per i pannelli fotovoltaici, ad esempio, appaiono operazioni superenergivore, le cui emissioni industriali non solo contengono sostanze tossiche come tellurio di cadmio o esafloruro di sodio, dunque alla pari di quelle degli idrocarburi, ma i loro livelli risultano addirittura 300 volte superiori a questi ultimi, stando ai dati Otovo.

Minor consumo, maggior sfruttamento

Sintesi delle idee di sostenibilità e digitalizzazione che da anni riempiono ogni spazio della comunicazione mediatica, la transizione 5.0 lascia in ombra non poche contraddizioni. Molte aziende, nel Belpaese, non hanno neppure compiuto il passo precedente, ovvero adottare in piena fluidità automazione e robotica, Internet of Things, cloud, big data e tutte quelle risorse che il neoburocratese digitale ha chiamato sino all’altro ieri Industria 4.0.

Perché tanta fretta? Forse la ragione sta proprio nel non volersi soffermare sulla co-implicazione delle tre parole d’ordine cui il nuovo paradigma dell’Industria 5.0 fa riferimento: transizione, sostenibilità e digitalizzazione. Accostate e messe sullo stesso piano, sembrano infatti l’una la naturale estensione dell’altra, ma come sta evidenziando sempre più la crisi geopolitica fra Paesi occidentali e blocco Brics, la digitalizzazione ha costi ambientali, oltre che economici, quanto mai impattanti per le sorti del pianeta.

Come più volte denunciato da Global Witness, la rivoluzione green trae vantaggio da uno sfruttamento quasi schiavistico delle comunità di bacini strategici quali quello delle miniere di litio e coltan nella Repubblica Democratica del Congo, ma anche dalla deliberata distruzione di territori ancestrali di nativi australiani o sudamericani, colpevoli solo di abitare sulle cosiddette “terre rare”.

Il lato oscuro della sostenibilità

Quando il Piano Transizione 5.0 dichiara di “premiare la digitalizzazione e il contenimento dei consumi”, offrendo un incentivo significativo per le imprese italiane a investire in tecnologie software e hardware innovative utili per “ridurre l’impatto ambientale”, dice allora solo una parte della realtà. Se le aziende avessero l’opportunità di soppesare costi e benefici in un’ottica più ampia, non è affatto detto che il “nuovo paradigma” risulti la scelta più giusta per il pianeta (e per la propria attività).

Oggi lo è sicuramente per colossi minerari come l’australiana Atlantic Lithium Ltd o la cinese Xinfeng Investments, che in Africa stanno facendo affari d’oro grazie al costo di una mano d’opera estrattiva alquanto economica (nel 2020 l’Unicef, insieme a Global Battery Alliance, ha calcolato che solo nelle miniere di cobalto della Repubblica Democratica del Congo lavorano in media 40mila bambini).

Escludendo dalle agevolazioni tutte le attività direttamente connesse ai combustibili fossili, legate al sistema dell’Ue di scambio quote di emissione e facenti riferimento a discariche di rifiuti, inceneritori o impianti di trattamento meccanico-biologico, il Piano Industria 5.0 rivela tutta la sua contraddittorietà: crea condizioni di privilegio economico per determinate categorie produttive, basandosi da una parte su parametri ambientali parziali, andando a squilibrare dall’altra l’assetto industriale del Paese mediante un’operazione destinata a scavalcare l’andamento reale dell’economia.

L’effetto rimbalzo

Per Cosimo Accoto, autore dell’illuminante saggio “Il mondo in sintesi” (Egea, 2022), una delle questioni chiave che il Piano pare completamente ignorare è il cosiddetto “effetto rimbalzo” (rebound) della sostenibilità digitale. Quando vengono intro- dotte tecnologie efficienti nei cicli di produzione, i loro effetti sistemici tendono a ridurre i benefici delle stesse tecnologie nei loro ambiti di applicazione più circoscritti.

Senza andare a fondo di queste problematiche, il Piano Industria 5.0 non solo rischia di apparire ambientalmente divisivo e nascere monco (a causa del ritardo strutturale delle aziende italiane rispetto al precedente Piano Industria 4.0), ma pare scivolare addirittura verso scenari in cui non è più la tecnologia al servizio dell’uomo, ma quest’ultimo al suo servizio. Per vincere davvero la sfida della transizione digitale e green, governi e industria dovrebbero forse soppesare la loro “evoluzione digitale” concedendosi tempi di adattamento più dilatati e una maggior onestà intellettuale.

di Alberto Caspani

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